Le ricerche surrealiste presentano, quanto al loro obiettivo, una notevole analogia con le ricerche alchimistiche: la pietra filosofale è in sostanza ciò che doveva permettere all’immaginazione dell’uomo di prendere una rivalsa sulle cose, dopo secoli di addomesticamento e di folle rassegnazione.
André Breton, secondo manifesto del Surrealismo, 1929
Non so dire se Luciano Civettini sia più poetico o più alchemico.
Poco importa.
Il suo Surrealismo Pop è deliziosamente ispirato, fondendo sensibilità locali – legate all’ambiente, all’ecologismo e ai paesaggi alpini – e sensibilità globali – la rivolta “esoterica” neo-surrealista come alleanza tra tradizione e avanguardia contro la sciattezza, la dozzinalità, la superficialità, la banalità, il cinismo, il dogmatismo.
Per di più le sue opere sono scevre dal gusto autoreferenziato del macabro, del turpe, dell’iconoclastia provocatoria (Luciano Civettini, an artist who did not turn into vinegar, WazArs, 10 novembre 2014).
Noi di WazArs volevamo assolutamente incontrarlo e così gli abbiamo proposto un’intervista. Partiamo dalla prima opera del 2015: un astronauta “fuori posto”, con della neve “fuori stagione”
È Yuri Gagarin, immerso nello “spazio”. L’ispirazione proviene da “2001: Odissea nello Spazio”. Volevo rendere l’idea di uno sfasamento spazio-temporale, interpretare la sensazione di essere nel vuoto spaziale, l’estraniamento che sicuramente si prova.
Però allo stesso tempo ho scelto di circondarlo del suo mondo: i suoi boschi, prati, case, strade…e un orso bianco.
E la neve a primavera. Non ci sono più le mezze stagioni!
Non è neve. È una rappresentazione pittorica e poetica della particelle sospese nei liquidi, nei gas e quindi anche nell’aria che si muovono freneticamente per via dei moti browniani.
Ce lo spiega anche Franco Battiato (“Moto Browniano”, 2008). Noi respiriamo frammenti della Sfinge, particelle di schiavi come anche particelle di Hitler. E se, come ci dice la fisica quantistica, le particelle comunicano tra loro (Teletrasporto quantistico, così viaggeranno le informazioni (ultra sicure) del futuro, Repubblica, 19 giugno 2014), allora collocarle nei punti giusti sulla tela è importante non solo per occupare degli spazi.
Le neve fuori stagione comunque c’era in una mia opera di qualche anno fa: “Neve d’agosto a Delfi”. Ma era la ricaduta di un’esplosione atomica.
La natura – specialmente gli alberi – è onnipresente nella tua arte.
Sono cresciuto nella periferia e il contatto con la natura era abbastanza normale, anche solo perché si andava a caccia di rane. Così oggi mia figlia è brava a scuola ma sa anche arrampicarsi sugli alberi [N.d.R.: Riceverebbe un plauso dal grande animatore giapponese Hayao Miyazaki, lamentatosi del fatto che i giovani giapponesi non sanno più arrampicarsi su un albero, annodare una corda o far volare un aquilone: Artigianato ed ecologismo steampunk in Hayao Miyazaki, WazArs, 28 luglio 2014].
Gli alberi, più precisamente le magnolie, sono importanti anche in “Bright Star”, il film di Jane Campion sulla breve vita del poeta inglese John Keats. Nel mio lavoro cerco di trasmettere , a chi guarda le mie opere queste esperienze e sensazioni, questa dimensione psicologica.
E il pubblico recepisce?
Ho avuto un rapporto molto proficuo con dei galleristi di Bielefeld, davvero molto professionali, che esponevano le mie opere, cioè quelle di un artista emergente, a fianco di quelle di “mostri sacri”, cosa che in Italia in genere non succede, a volte è impensabile.
Però non ha funzionato.
L’unico neo era quello di un approccio “produttivo” che mi costringeva a realizzare opere quasi industrialmente.
Troppo stressante e poco stimolante?
Proprio così. Alla fine il rapporto si è spezzato. È stata una svolta, sono dovuto ripartire praticamente da zero. Ho dovuto guardarmi dentro, cercare di capire che tipo di arte mi avrebbe consentito di comunicare quello che sono.
Invece di dipendere da qualcuno ho cominciato a far rete con altri artisti (es. Laurina Paperina, una cara amica, e Luca Coser, un maestro per me).
Per me fare rete significa anche organizzare l’annuale “cena degli artistoni”, come la chiamo autoironicamente.
Fare rete non è naturale per gli artisti.
Temo di no. Gli artisti mi parea facciano fatica a comunicare e cooperare. E poi il mercato ci mette gli uni contro gli altri.
È anche una questione d’abitudine. Se lo fai tu…
Sì, è pure un fatto mentale. Tra l’altro collaborare conviene, perché migliora la qualità dei tuoi lavori; e poi si formano bei rapporti di amicizia.
La qualità, ossia il nodo della questione.
L’arte è un mestiere. Serve il talento ma serve anche l’esperienza, anni di errori e di correzioni. Mi piace molto il gesto di Miyazaki, che ha scelto di lasciare perché ha sentito di avere detto le cose che voleva dire nel mondo in cui sperava di farlo [NdR: in realtà, lo scrivo per confortare i fan, H.M. è davvero imprevedibile, in eterna lotta tra pessimismo e ottimismo, fuga e impegno: Alla fine Hayao Miyazaki non ci lascia; Anime King Hayao Miyazaki’s Cursed Dreams].
Le opere vengono da sé. Con il passare del tempo sono loro che ti chiedono di essere create; acquisti una certa naturalezza. Io per esempio lavoro senza disegnare, dipingo direttamente su tela, perché mi sono impadronito di questa tecnica, l’ho fatta mia, so cosa sto facendo anche se, alla fine, mi dico: “Ma questo l’ho fatto io?”
Anche le storie chiedono di essere raccontate.
Forse è quel che capitava a mio nonno. Faceva il muratore, ma era anche un robivecchi e si appassionava all’arte. Raccontava tantissime storie. Leonardo da Vinci usava anche le macchie per accendere la sua fantasia (Il Trattato della Pittura).
La cura calligrafica delle frasi che inserisco nelle mie opere viene dal nonno. Mi ammoniva sempre a non perdere mai di vista il senso delle parole, a sceglierle bene, anche quelle volgari, quando sono necessarie.
Come le usi nei quadri?
In tanti modi. Possono essere fedeli al soggetto, oppure delle trappole. Possono voler generare stupore, oppure sono pensate per armonizzare gli spazi.
Insomma, non si può mai sapere.
Beh, dopo tutto mi piace moltissimo la poesia francese surrealista d’inizio Novecento. Sono nato surrealista e il new pop fa largo uso delle teorie surrealiste. Lo preferisco perché è più contemporaneo ma abbonda di riferimenti alla storia dell’arte. Sono anche legato al minimalismo, ma non quello improvvisato o di maniera. Non c’è minimalismo credibile senza anni di esperienza – per un artista – e secoli di esperienza – per una civiltà. La differenza la si vede tra il minimalismo profondo giapponese e quello americano. Solo il primo è frutto di una lunghissima sperimentazione. Il secondo è quello che vedi nelle case lussuose della serie “Miami Vice” (1984-1990): opere minimal costosissime e che si sono esaurite lì. Magari conquistano il mondo, ma mancano di incisività, provocano ma non emozionano; non lasciano traccia.
Così minimal che hai inventato dei libri materialmente illeggibili. Li guardi ma non li puoi aprire, perché sono sigillati con la resina. Che idea surreale!
È nata grazie a un suocero antiquario che mi ha riempito di libri che non sarei mai riuscito a leggere. Un giorno, per sbadataggine, della colla vinilica è caduta su un libro e l’ha sigillato. Il nome inglese che ho dato a questa serie – blur – indica la sfocatura (lo vedi, ma non lo puoi vedere bene). Però, anche qui, c’è stato dietro un importante lavoro di selezione, per tentativi, delle prestazioni delle resine, in combinazione con i vari colori.
La famosa creatività manuale.
È importante metterci le mani nelle cose, provare, buttare, riprovare, risolvere i problemi. Se la gente non sa quel che usa, difficilmente potrà diventare inventiva.
Mi pare chiaro che la gente ha bisogno di fantasy. Le code posticce, le orecchie sui caschi, sono stilemi fiabeschi. I fumetti e le fiabe fanno abbassare la guardia e i messaggi possono arrivare più in profondità. Ma c’è anche lì una differenza tra Stati Uniti ed Europa. Nel Vecchio Mondo si sente ancora il bisogno di dosare pesi e contrappesi, trovare equilibri, armonie, ricorrere alla sezione aurea.
Una tradizione millenaria.
Un giorno, mentre ero tra il pubblico, ho chiesto provocatoriamente a Laurina Paperina: “Ma tu lo senti il bisogno di un senso di eternità”?
Tu lo senti.
Lo sento eccome e proprio per questo mi sento anche in “eterna” evoluzione: solo cambiando si trova l’equilibrio che ci restituisce quel senso di eternità di cui sopra.
Per le posture, sguardi, espressioni Io traggo ispirazione da qualcuno – mia figlia, mia moglie – che sta cambiando e che mi costringe a mia volta a cambiare e maturare.
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